domenica 11 marzo 2012

Giambattista Basile

La figura più illustre della famiglia Basile è senz'altro il grande letterato Giambattista (Giugliano in Campania 1566 – Giugliano in Campania 1632), figlio del nobile Giangiacomo e di Landolia Milone di famiglia notabile benestante, conte di Torone, cavaliere del Cingolo Militare detto anche della “Milizia Aurata”; una vita che svolse divisa tra il suo amore principale la letteratura, l'esperienza di soldato di ventura, la mansione di cortigiano ed amministratore o governatore presso varie corti e feudi.
Da giovane fu soldato mercenario al servizio della Serenissima Repubblica Veneta, tra Venezia e l'isola di Candia, odierna Creta. L'ambiente, in cui venne a trovarsi, gli permise di frequentare la società letteraria “dell’Accademia degli Stravaganti”, fondata da Andrea Cornaro, col nome di “pigro”. I primi documenti della sua attività letteraria risalgono al 1604 e sono costituiti da alcune lettere scritte come prefazione all’opera “la Vaiasseide” dell'amico e letterato Giulio Cesare Cortese. L'anno seguente viene messa in musica la villanella “Smorza crudel amore”. Rientrato a Napoli nel 1608 pubblica “Il Pianto della Vergine”. Nel 1611 era alla corte di principe Luigi Carafa di Stigliano, al quale dedicò un testo teatrale “Le avventurose disavventure”.
Adriana Basile
Seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca, alla corte dei Gonzaga in Mantova che lo accolsero benevolmente, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi, dove venne nominato “gentiluomo di Corte” il 13 marzo 1613 e cavaliere il 6 aprile dello stesso anno ed ottenne la nomina a Conte Palatino “con facoltà di creare notai e giudici ordinari in tutto il S.R.I.” , nomina che trasformò in conte di Torone, frazione di Morrone in provincia di Caserta. In Mantova fece stampare madrigali dedicati alla sorella, le “Egloghe amorose e lugubri”, la seconda edizione riveduta ed ampliata de “Il Pianto della Vergine” e il dramma in cinque atti “La Venere addolorata”.
Tornato a Napoli, fu governatore di vari feudi per conto di alcuni Signori del luogo; nel 1618 pubblicò “L'Aretusa”, dedicato al principe Caracciolo di Avellino, e l'anno seguente un testo teatrale in cinque atti “Il Guerriero amante”. Le sue opere più famose sono scritte in lingua Napoletana si intitolano "Le Muse Napolitane" e “ Lo Cunto de li cunti ovvero lo trattenimiento de peccerille”, noto anche come il “Pentamerone”, chiamato così da un editore e non per scelta del Basile. Quest'ultimo, anche nel titolo, si ispira alla raccolta di novelle del “Decamerone” di Boccaccio, ma con alcune differenze: la cornice interagisce con le favole-novelle, le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, di cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici; le storie narrate da Basile sono delle fiabe tratte dalla tradizione popolare che trasforma in prodotti letterari, con l'uso della lingua napoletana più colta di quella effettivamente parlata e con l'inserimento di annotazioni ironiche e commenti moralistici, la scelta di scrivere in napoletano corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi oltre al fatto che il “Napoletano è sempre stata una lingua” sminuita solo dall'unità d'Italia dove è stato forzatamente usato il ”toscaneggiante”. Gianbattista morì a Giugliano, nel 1632, ed è qui sepolto nella chiesa di Santa Sofia, eppure Gian Alessio Abbattutis, anagramma col quale si firmava Giovan Battista Basile, morì senza la gioia di vedere la propria opera pubblicata e conosciuta.
Anche dopo la morte la sorella Adriana ebbe per lui affetto e cura di perpetuare la sua memoria, infatti pubblicò le opere inedite postume: “Lo cunto de li cunti...” tra il 1634/5 e “Le Muse Napolitane” nello stesso 1635. La sua produzione dialettale ne fa un classico, un autore che ha saputo, nel “Cunto de li cunti ”, offrire la più vasta e profonda indagine antropologica mai compiuta su di un popolo, quello Napoletano e della Napoli seicentesca, raccontandola semplicemente dalle fiabe… che sono la memoria storica della cultura locale. Barocco è il mondo delle fiabe, così come lo era la fantasia dei napoletani a quei tempi. La sua opera scorrevole è piena di immagini e metafore, ci ha consegnato un capolavoro in cui domina “il capriccio della magia” che ribalta condizioni e fortune, testimoniando la precarietà di un mondo preda dell'arbitrio, di un mondo che ci presenta solo immagini di capovolgimenti d'ogni norma e legge… da qui, anche, la sua grandezza e la sua attualità.
“L'Italia possiede nel Cunto de li Cunti del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari. Così Benedetto Croce definì il «Boccaccio Napoletano», Giambattista Basile: “scrittore unico nel suo genere per il Seicento italiano. Dalla penna e dall'immenso estro letterario e linguistico dell'autore da una parte, e dall'osservazione meticolosa della realtà e dei racconti popolari del suo tempo, il suo capolavoro multi fiabesco in antico dialetto napoletano, «Lo Cunto de li Cunti», o «Pentamerone», è da sempre uno dei principali punti di riferimento scritti della più classica tradizione italiana della Fiaba. La sua Opera, insieme a quella del Boccaccio e soprattutto di Gianfrancesco Straparola, è tra le più antiche e importanti del nostro patrimonio letterario nazionale, e la sua rilevanza è tale, da essere riuscita persino ad influenzare il lavoro di altri illustri raccoglitori, rielaboratori e scrittori di fiabe del Continente, tra i quali i tedeschi GrimmMa l’Italia non se ne ancora accorta, ancora oggi il Cunto de li Cunti non è diventato un testo di studio ampiamente diffuso.
Uno dei massimi studiosi di Basile è Michele Rak, un napoletano che insegna nelle maggiori università italiane, e che ha tradotto il "Cunto de li cunti", comprendendone la struttura e la differenza che c'è dal Decamerone, la sua appartenenza alla raffinata cultura napoletana nota in tutta Europa. Dalla versione in italiano di Rak sono state ricavate le grandi traduzioni internazionali: a New York da Nancy Canepa ed a Zurigo da Rudolph Schenda. Llo hanno conosciuto ed apprezzato soprattutto i tedeschi con una traduzione di Liebrecht nel 1846, i russi con una traduzione di Vladimir Popp, gli inglesi con Taylor nel 1848 e poi da Burton che ne fece una traduzione completa nel 1893; in Italia ebbe scarsissima fortuna e nell’Ottocento se ne persero le tracce, solo con il grande musicologo-saggista ricercatore napoletano Roberto De Simone, che ne ha curato lo stile e la lingua, è stata pubblicata nel 1989 un’edizione divulgativa dell’opera, alla quale egli si ispirò, precedentemente, per ideare e mettere in scena la sua opera teatrale musicale “La Gatta Cenerentola” nel 1976, con l’apporto della Nuova Compagna di Canto Popolare.

FONTE: IL PORTALE DEL SUD

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