La figura più illustre della famiglia Basile è senz'altro il grande letterato Giambattista (Giugliano in Campania 1566 – Giugliano in Campania 1632), figlio del nobile Giangiacomo e di Landolia Milone di famiglia notabile benestante, conte di Torone, cavaliere del Cingolo Militare detto anche della “Milizia Aurata”; una vita che svolse divisa tra il suo amore principale la letteratura, l'esperienza di soldato di ventura, la mansione di cortigiano ed amministratore o governatore presso varie corti e feudi.
Da giovane fu soldato mercenario al servizio della Serenissima Repubblica Veneta, tra Venezia e l'isola di Candia, odierna Creta. L'ambiente, in cui venne a trovarsi, gli permise di frequentare la società letteraria “dell’Accademia degli Stravaganti”, fondata da Andrea Cornaro, col nome di “pigro”. I primi documenti della sua attività letteraria risalgono al 1604 e sono costituiti da alcune lettere scritte come prefazione all’opera “la Vaiasseide” dell'amico e letterato Giulio Cesare Cortese. L'anno seguente viene messa in musica la villanella “Smorza crudel amore”. Rientrato a Napoli nel 1608 pubblica “Il Pianto della Vergine”. Nel 1611 era alla corte di principe Luigi Carafa di Stigliano, al quale dedicò un testo teatrale “Le avventurose disavventure”.
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Adriana Basile
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Seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca, alla corte dei Gonzaga in Mantova che lo accolsero benevolmente, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi, dove venne nominato “gentiluomo di Corte” il 13 marzo 1613 e cavaliere il 6 aprile dello stesso anno ed ottenne la nomina a Conte Palatino “con facoltà di creare notai e giudici ordinari in tutto il S.R.I.” , nomina che trasformò in conte di Torone, frazione di Morrone in provincia di Caserta. In Mantova fece stampare madrigali dedicati alla sorella, le “Egloghe amorose e lugubri”, la seconda edizione riveduta ed ampliata de “Il Pianto della Vergine” e il dramma in cinque atti “La Venere addolorata”.
Tornato a Napoli, fu governatore di vari feudi per conto di alcuni Signori del luogo; nel 1618 pubblicò “L'Aretusa”, dedicato al principe Caracciolo di Avellino, e l'anno seguente un testo teatrale in cinque atti “Il Guerriero amante”. Le sue opere più famose sono scritte in lingua Napoletana si intitolano "Le Muse Napolitane" e “ Lo Cunto de li cunti ovvero lo trattenimiento de peccerille”, noto anche come il “Pentamerone”, chiamato così da un editore e non per scelta del Basile. Quest'ultimo, anche nel titolo, si ispira alla raccolta di novelle del “Decamerone” di Boccaccio, ma con alcune differenze: la cornice interagisce con le favole-novelle, le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, di cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici; le storie narrate da Basile sono delle fiabe tratte dalla tradizione popolare che trasforma in prodotti letterari, con l'uso della lingua napoletana più colta di quella effettivamente parlata e con l'inserimento di annotazioni ironiche e commenti moralistici, la scelta di scrivere in napoletano corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi oltre al fatto che il “Napoletano è sempre stata una lingua” sminuita solo dall'unità d'Italia dove è stato forzatamente usato il ”toscaneggiante”. Gianbattista morì a Giugliano, nel 1632, ed è qui sepolto nella chiesa di Santa Sofia, eppure Gian Alessio Abbattutis, anagramma col quale si firmava Giovan Battista Basile, morì senza la gioia di vedere la propria opera pubblicata e conosciuta.
Anche dopo la morte la sorella Adriana ebbe per lui affetto e cura di perpetuare la sua memoria, infatti pubblicò le opere inedite postume: “Lo cunto de li cunti...” tra il 1634/5 e “Le Muse Napolitane” nello stesso 1635. La sua produzione dialettale ne fa un classico, un autore che ha saputo, nel “Cunto de li cunti ”, offrire la più vasta e profonda indagine antropologica mai compiuta su di un popolo, quello Napoletano e della Napoli seicentesca, raccontandola semplicemente dalle fiabe… che sono la memoria storica della cultura locale. Barocco è il mondo delle fiabe, così come lo era la fantasia dei napoletani a quei tempi. La sua opera scorrevole è piena di immagini e metafore, ci ha consegnato un capolavoro in cui domina “il capriccio della magia” che ribalta condizioni e fortune, testimoniando la precarietà di un mondo preda dell'arbitrio, di un mondo che ci presenta solo immagini di capovolgimenti d'ogni norma e legge… da qui, anche, la sua grandezza e la sua attualità.
“L'Italia possiede nel Cunto de li Cunti del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari.” Così Benedetto Croce definì il «Boccaccio Napoletano», Giambattista Basile: “scrittore unico nel suo genere per il Seicento italiano. Dalla penna e dall'immenso estro letterario e linguistico dell'autore da una parte, e dall'osservazione meticolosa della realtà e dei racconti popolari del suo tempo, il suo capolavoro multi fiabesco in antico dialetto napoletano, «Lo Cunto de li Cunti», o «Pentamerone», è da sempre uno dei principali punti di riferimento scritti della più classica tradizione italiana della Fiaba. La sua Opera, insieme a quella del Boccaccio e soprattutto di Gianfrancesco Straparola, è tra le più antiche e importanti del nostro patrimonio letterario nazionale, e la sua rilevanza è tale, da essere riuscita persino ad influenzare il lavoro di altri illustri raccoglitori, rielaboratori e scrittori di fiabe del Continente, tra i quali i tedeschi Grimm”. Ma l’Italia non se ne ancora accorta, ancora oggi il Cunto de li Cunti non è diventato un testo di studio ampiamente diffuso.
Uno dei massimi studiosi di Basile è Michele Rak, un napoletano che insegna nelle maggiori università italiane, e che ha tradotto il "Cunto de li cunti", comprendendone la struttura e la differenza che c'è dal Decamerone, la sua appartenenza alla raffinata cultura napoletana nota in tutta Europa. Dalla versione in italiano di Rak sono state ricavate le grandi traduzioni internazionali: a New York da Nancy Canepa ed a Zurigo da Rudolph Schenda. Llo hanno conosciuto ed apprezzato soprattutto i tedeschi con una traduzione di Liebrecht nel 1846, i russi con una traduzione di Vladimir Popp, gli inglesi con Taylor nel 1848 e poi da Burton che ne fece una traduzione completa nel 1893; in Italia ebbe scarsissima fortuna e nell’Ottocento se ne persero le tracce, solo con il grande musicologo-saggista ricercatore napoletano Roberto De Simone, che ne ha curato lo stile e la lingua, è stata pubblicata nel 1989 un’edizione divulgativa dell’opera, alla quale egli si ispirò, precedentemente, per ideare e mettere in scena la sua opera teatrale musicale “La Gatta Cenerentola” nel 1976, con l’apporto della Nuova Compagna di Canto Popolare.
FONTE: IL PORTALE DEL SUD
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