sabato 19 novembre 2011

Le Chiese di Napoli parte 1°

Santa Maria del Carmine
Piazza del Carmine


S.Maria del Carmine


Domina la zona che fu teatro della rivoluzione di Masaniello (1647).
Nella chiesa è venerata un'immagine della Madonna su una tavoletta di legno detta "La Bruna"  che, si racconta,  un tempo apparteneva a certi eremiti i quali abitavano sul Monte Carmelo, perseguitati dai Saraceni, scesero un giorno a Napoli e, ottenuto il possesso di una chiesetta che sorgeva presso la marina, vi posero dentro l'immagine della Madonna Bruna che la leggenda attribuisce all'apostolo Luca.
Tra il 1283 e il 1300 la chiesa fu rifatta per una generosa donazione di Elisabetta di Baviera, madre dell'infelice Corradino di Svevia, la quale volle in quel modo ricompensare i monaci del Carmelo per aver custodito le spoglie del figlio dopo la sua decapitazione.
Corradino di Svevia L'attuale tomba di Corradino fu voluta da un discendente il principe Massimiliano di Baviera, ultimo degli Hohestaufen nel 1847, su disegno del Thorwaldsen, lo scultore romantico danese che tanta fortuna ebbe in Italia nel secolo scorso. In origine il principe fu sepolto dietro l'altare maggiore. Quando nel 1646 il cardinale Filomarino fece abbassare il pavimento dietro l'altare maggiore vennero alla luce due casse di piombo con i resti dello sfortunato principe. Finalmente le spoglie vennero tumulate nella base della statua ed il 14 maggio 1847 furono anche celebrati solenni funerali commemorativi.
Non ebbero purtroppo la stessa sorte i sepolcri di Masaniello e di Aniello Falcone, dei quali non si conosce più l'ubicazione.
Sulla porta piccola si trova un antico organo del 1483 di Lorenzo di Jacopo da Prato, restaurato nel 1549 da Giovanni Tommaso de Majo. Seicentesco è invece l'altro organo di fronte.
Altre testimonianze artistiche sono rappresentate dalla cappella dell' Assunta, unica testimonianza medievale, il cappellone del SS. Crocifisso, la cappellina di S. Ciro, la cappella di S. Anna, quella delle SS. Teresa e Maddalena de'Pazzi, delle Anime del Purgatorio, quella di S. Teresa o S. Orsola, di San Gennaro e di S. Simone Stock.
Chiesa del Carmine: il campanile

Nell'ultima guerra è, purtroppo, scomparso il soffitto ligneo a cassettoni, considerato tra i più belli del rinascimento napoletano.
Dentro un tabernacolo è conservato un crocifisso di legno che è veneratissimo dal popolo; si narra che il 17 ottobre 1439, durante la guerra tra Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò, un proiettile penetrò nella chiesa diretto verso il crocifisso, e che Gesù abbassò prodigiosamente il capo in modo che solo la corona di spine venne colpita. Il proiettile è visibile nell'ultima cappella a destra.
Si conserva inoltre il pulpito dal quale Masaniello arringò la folla poco prima di venire trucidato.
A destra della facciata un agile campanile con una singolare cuspide a mattonelle maiolicate di Frà Nuvolo, che però disegnò solo la "pera" della lanterna. Danneggiato da uno dei frequenti terremoti napoletani, fu rifatto dal Palamidessa nel 1458 e nel 1459 occorse l'opera di ben cento galeotti per issarvi le campane che vi pose fra Girolamo de Signo. Il campanile, alto 75 m., fu terminato nel 1622 da Giacomo Conforto e solo nel 1745 furono messe in opera la palla e la croce che lo chiudono in alto.
Ogni anno, il 15 luglio, ricorrenza della Madonna del Carmine, si effettua uno spettacolare "incendio" del campanile con fuochi pirotecnici.





Chiostro di San Gregorio Armeno


Cristo e la samaritana


Notizie storiche

Il Monastero di S. Gregorio Armeno è situato nella parte forse più antica e nobile di Napoli, dove un tempo era il foro della città greco-romana, splendida di vitalità, di monumenti e di civiltà.
All'interno del chiostro si vedono numerosi capitelli di epoca romana, probabilmente appartenenti al tempio di Cerere ed anche diversi mortai di marmo bianco che, secondo R. Pane, furono ottenuti riscalpellando altrettanti capitelli corinzi.
Il chiostro, nella sua forma attuale, risale alla metà del XVI sec. quando il Concilio di Trento impose nuove regole di vita monastica. Il canonico Celano che in fatto di notizie "del bello, dell'antico e del curioso" della città di Napoli è miniera inesauribile, distingue e trasmette due versioni sull'origine del monastero: la prima che vuole il convento fondato ai tempi di Costantino il Grande, e, precisamente, da S. Elena; la seconda che vuole invece il monastero fondato da monache greche ed armene che, perseguitate in patria, si rifugiarono in Italia, portando il corpo di San Gregorio Armeno. Le due versioni possono conciliarsi, nel senso che, probabilmente le monache greche, profughe, furono accolte nel più antico collegio fondato da S. Elena. Le monache, che seguivano la regola di San Basilio, dovettero accettare la regola di San Benedetto e da basiliane divennero benedettine.
Il monastero era un agglomerato di più case, circondato da un muro mediocremente alto. Ogni casa aveva più camere, cucina e cantina con altre comodità. Ogni monaca possedeva la sua, che nel monacarsi, o comprava dal monastero, se ce n'erano libere, o faceva fabbricare a proprie spese.
Concluso il Concilio nel 1563, fu imposta la clausura e la vita in comune e, dopo qualche resistenza, le monache di San Gregorio iniziarono la vita claustrale con un periodo di preparazione che durò un anno e il 17 gennaio 1570 fecero la professione religiosa, abbandonando gli antichi riti greci. In quel periodo cambiarono l'abito da bianco in nero.
Nel 1572 fu iniziata la costruzione del nuovo monastero, affidata all'architetto Vincenzo Della Monica che la completò nel 1577 nella forma che oggi ammiriamo.
Visita al monastero

Si accede al chiostro attraverso una lunga e agevole scala formata da 33 gradini di piperno; sui due lati, appena entrati, si vede il resto di una zoccolatura, composta da mattonelle smaltate, con foglie gialle e verdi, anzi, come dice R. Pane, di autentiche "riggiole" del'700.
Si notano ai lati gli affreschi di Giacomo del Po, ora abbastanza sciupati dal tempo e dalle intemperie, tranne che nella parte superiore, ove recenti restauri hanno ridato vita alle bianche figure occhieggianti tra colonne verdi e sottili spirali di foglie. Sul lato sinistro si vedono illusorie vetrate con scorci prospettici e cani e gatti sui davanzali.
Salendo, sulla destra si notano alcuni ambienti, destinati un tempo, al contatto con il mondo esterno. Dalla prima porta si accedeva alla "cantina eucaristica", così detta perchè vi si riponeva il vino per la messa e adibita inoltre a conservare fresca, in estate, l'acqua potabile. le successive porte introducevano alle "grate", quella della badessa, delle converse, detta grata di mezzo e delle suore, detta grata di sopra.
Al termine della scala ammiriamo l'atrio, restaurato con raffinata eleganza nel '700; un'iscrizione sul portale ricorda che l'atrio della sacra casa fu rifatto nel 1762.
Il pavimento è di marmo bianco e piperno, ai lati ci sono sedili di piperno con spalliere di marmo; di fronte si apre la porta principale in legno di noce ai cui lati si osservano due piccole porte che coprono due bocche o cavità, scavate nel muro, nelle quali girano due grandi cilindri di legno, ricoperti di bronzo e ottone, dette comunemente "ruote", unici mezzi di trasmissione di cibi, di vestiario e di ogni altro oggetto che entrava o usciva dalla casa religiosa. Sia la porta principale che quelle laterali nonchè le bocche delle ruote sono intarsiate di marmi pregiati ( marmo bianco con "borolé" di Francia, giallo di Verona). Sovrasta una breve volta con altri dipinti di Giacomo del Po: San Benedetto tra due angeli e sopra una balaustra con altri scorci prospettici.
In un'edizione dell'opera del Celano aggiornata al 1792, si parla diffusamente del restauro settecentesco del monastero e se ne sottolinea la maestosità e la magnificenza. L'anonimo commentatore così continua: " nella parte interiore poi del Monastero chi aveva avuto la sorte di entrare ne ha descritto la bellezza, la magnificenza, le amenità".
Varcato l'ingresso, ci si trova davanti ad un vestibolo a forma di L. Sulla sinistra entrando, si trova un quadro del "dipintore Paolo De Matthaeis", a destra, nel tratto breve della L si notano eleganti sedili cinquecenteschi in pietra scura, sorretti da colonne e sormontati da marmi policromi. Le pareti sovrastanti i sedili, mostrano delicati affreschi di paesaggi, dai tenui colori sfumati.

Il chiostro
Ed eccoci finalmente nel chiostro: appena si entra, colpisce la visione di un superbo gruppo marmoreo raffigurante l'incontro di Cristo e la samaritana. Un'iscrizione ricorda che la fonte, "ricca per ameno gioco di acque, dolce spettacolo per gli occhi" fu fatta costruire dalla badessa Violante Pignatelli nel 1783. Un'altra iscrizione sul lato opposto ricorda che la fontana, cadente per la vecchiaia, fu fatta restaurare nel 1843 dalla badessa Francesca  Caracciolo, "affinché alle vergini sacre a Dio non mancasse il perpetuo simbolo della evangelica purezza e della fonte divina della viva acqua". Sia il Celano che il Galante attribuiscono il gruppo marmoreo a Matteo Bottiglieri. Invece, R. Pane, pur confermando la paternità dello scultore per le figure del Cristo e della samaritana, esclude che il Bottiglieri abbia costruito anche la fontana, sia per mancanza di documenti in proposito, sia perché la composizione della stessa si rivela più opera di un architetto che di uno scultore.
Lungo il lato del portico corrispondente la navata della chiesa, si notano alcune aperture con grate a sedili da cui le monache potevano assistere alla Messa senza allontanarsi dal chiostro.
Cappella di S. M. dell'Idria
Proseguendo sulla destra, ammiriamo la cappella di S. M. dell'Idria che Pane definisce "l'ambiente più ricco e prezioso di tutto il complesso conventuale". Essa ha origini antiche di cui si conservano ancora tracce nell'arco ogivale dell'altare maggiore e nelle volte della cappella, mentre il resto risale ad un ampliamento e ricostruzione settecentesca, incominciata dalla badessa Antonia Gonzaga e completata nel 1712 dalla badessa Claudia di Sangro.
Che significa Madonna dell'Idria?
L'inestimabile canonico Celano dice che "S. M. dell'Idria detta così per l'immagine della SS. Vergine con un idria, ossia vaso sotto de' piedi, immagine tenuta in somma venerazione per gli continui miracoli e grazie che ne ottengono". Idria è un termine greco che indica un vaso per acqua con due anse laterali. Invece Gennaro Aspreno Galante "prete napolitano" nella sua opera "Guida sacra alla città di Napoli" sostiene che la dicitura S. M. dell'Idria sarebbe una contrazione dell'espressione "S. Maria dell'odegitria", termine greco per indicare "guida del buon cammino". La cappella era adornata da 18 artistiche tele, ora al restauro, opera del De Matthaeis.
Quasi di fronte alla cappella si accede al refettorio delle monache, costruito nel '600 e restaurato tra il 1692 ed il 1695: è un lungo rettangolo coperto a volta con stalli intagliati ed un pulpito dal quale sporge una figura in altorilievo. Si notano pitture a fresco assai guaste e di scarso interesse.
Importanti lavori eseguiti nel 1644 sotto la direzione di Francesco Picchiatti mutarono il primitivo disegno cinquecentesco del chiostro rendendolo più piccolo; furono sistemate le quattro aiuole che oggi concludono lo spazio quadrilatero intorno alla fontana e si tracciò l'ampia esedra che si svolge lungo lo spazio trasversale del chiostro. Essa è decorata con stucchi, vasi e due statue in terracotta e serve come separazione tra il giardino e l'orto nonchè come fondale alla prospettiva delle aiuole. Un' ultima curiosità c'è da segnalare: il pozzo presso la fontana, riccamente ornato di ferro battuto. Ebbene, il pozzo non è un pozzo, ma il mascheramento di un vasto e profondo scavo quadrato da cui fu tratto il materiale di costruzione (tufo) per la fabbrica cinquecentesca ed i lavori del '600.
Alziamo gli occhi alla bella cupola di embrici smaltati gialli e verdi ed ai cinque belvederi che consentono successive scenografiche visioni del panorama cittadino e poi allontaniamoci in silenzio per non turbare l'operosa pace di questo monastero ormai millenario che ha saputo coniugare la feconda, molteplice attività dell'oggi con le silenziose immagini del passato.

Duomo di Napoli
Via Duomo


Duomo


Sorta nel nucleo di origine romana alla fine del duecento su una precedente basilica paleocristiana, la Cattedrale di Napoli è ubicata tra il Decumano Centrale, il Decumano Superiore e due cardini del tracciato greco-romano. Nella zona vi era stato un tempio dedicato ad Apollo, ed essa era stata poi utilizzata per il culto cristiano con le Basiliche di Santa Restituta del IV secolo, il Battistero di San Giovanni, la Basilica di Santa Stefania del IV secolo e il Battistero Vincenziano.
La costruzione del Duomo fu voluta da Carlo I d'Angiò, proseguì durante il regno di Carlo II (1285-1309) e fu completata nel primo ventennio del trecento da Roberto d'Angiò. La Chiesa, danneggiata da vari eventi sismici, fu spesso restaurata e rimaneggiata e presenta quindi notevoli sovrapposizioni di stili. L'intervento che più di ogni altro trasformò l'impianto originario, fu quello del seicento che sovrappose decorazioni barocche alle forme gotiche.
L'attuale facciata pseudo neogotica, rifatta da Enrico Alvino alla fine dell'ottocento, conserva il portale gotico del 1407 fatto da Tino di Camaino; i due portali laterali sono anch'essi tardo gotico come l'altissima guglia con l'incoronazione della Vergine, interessanti sono solo i portali in "gotico-fiorito" opera dell'abate Antonio Baboccio da Piperno che operò a Napoli negli ultimissimi anni del Trecento e il primo decennio del Quattrocento.
La Cattedrale è a tre navate con transetto ed abside poligonale, con copertura a capriate lignee nella navata centrale e a crociera nelle laterali. Il suo aspetto spaziale cambiò per la costruzione di un soffitto a cassettoni dipinti da Vincenzo Forlì e Fabrizio Santafede. Col passare degli anni si sono operate molte  sovrapposizioni  secondo della moda dell'epoca travisando completamente lo stile originale della chiesa.
Di grosso interesse è il fonte battesimale che presenta su un gambo di porfido una preziosa vasca di basalto egiziano, di provenienza pagana, con tirsi e maschere bacchiche di pura fattura greca. Il fonte tutto è del Seicento.
Lungo le pareti della navata centrale vi sono tele di Luca Giordano; nelle Cappelle laterali, oltre ad opere di Vaccaro, Perugino, Falcone e Solimena, vi sono pregevoli sepolcri tra cui ricordiamo quello al Cardinale Sersale di San Martino. Ai lati della tribuna vi sono la Cappella Minutolo, con pavimenti a mosaico e affreschi duecenteschi, e la Cappella Tocco, con un affresco di Pietro Cavallini.  Un vero gioiello rinascimentale è il cosiddetto Succorpo di San Gennaro o cappella della confessione in purissime forme quattrocentesche voluta dal cardinale Oliviero Carafa.
Cappella del tesoro di San GennaroLa Cappella del Tesoro è opera barocca dell'architetto Grimaldi. L'accesso alla Cappella è chiuso da un bellissimo cancello dorato di Cosimo Fanzago, le sbarre a "balaustra", se percosse, emettono un suono musicale gradevolissimo ed in toni diversi.
La Cappella è a pianta centrale ed è coperta da una cupola con affresco del Lanfranco.  L'interno della cappella è un compendio del migliore Seicento napoletano, i marmi preziosi connessi con quella abilità che fece la Scuola di pietre dure barocca napoletana pari a quella, eccelsa, fiorentina. Dietro l'altare troneggia la grande statua di San Gennaro, un bronzo del Finelli; ai lati dell'altare maggiore si trovano due enormi candelabri d'argento del 1744. Altro particolare di grande interesse sono le 51 statue d'argento rappresentanti i compatroni di Napoli e che il primo sabato di maggio vengono da sempre portate in processione per Napoli come "sacra scorta" a quella di S. Gennaro . Il tesoro di S. Gennaro conserva i preziosissimi doni fatti da molti regnanti europei e la famosa mitra d'argento di Matteo Treglia del 1713 tempestata di diamanti, smeraldi e rubini
In questa Cappella si conservano le ampolle con il sangue coagulato di San Gennaro e il suo cranio. Fu eretta nel 1608 su progetto di Francesco Grimaldi per adempiere a un voto dei napoletani fatto al santo patrono per essere scampati alla peste del 1526. Il sangue si scioglie due volte all'anno, in maggio e in settembre, rinnovando un prodigio di cui si sono occupati scienziati di tutto il mondo (un prodigio che si verifica anche nel santuario di San Gennaro alla Solfatara di Pozzuoli, dove si ravvivano le macchie di sangue su una pietra su cui il santo fu decapitato.  Dalla navata sinistra si scende nella basilica paleocristiana di Santa Restituta. Essa fu edificata nel quarto secolo, ma in seguito assai trasformata, in onore dei Santi Apostoli e Martiri. Nell'ottavo secolo fu consacrata a Santa Restituta. La Chiesa, al tempo degli Angioini, divenne Cappella laterale del Duomo. Nel settecento, Arcangelo Guglielmelli progettò un inconsueto boccascena absidale e in corrispondenza dell'ingresso sistemò un organo con forte effetto prospettico. Sul soffitto vi è un dipinto di Luca Giordano sulla vita di Santa Restituta. Annesso alla basilica è il più antico Battistero paleocristiano dell'Occidente perché quello del Laterano è posteriore di circa trent'anni, quello di San Giovanni in Fonte.  La costruzione fu voluta da dal vescovo Severo tra il febbraio del 363 e l'aprile del 409.
Gesu' nuovo
Piazza del Gesù

Costruita nel XVI secolo per i gesuiti sull' area del rinascimentale Palazzo Sanseverino, di cui conserva la facciata in bugnato a punta di diamante. Progettata dal gesuita L. Valeriani, venne trasformata da Cosimo Fanzago secondo i canoni dell'architettura barocca.
Napoli: chiesa del Gesù NuovoLa prima chiesa dei gesuiti fu dedicata, per volere del viceré, all'Immacolata Concezione e, quando nel 1767, l'ordine gesuita fu bandito dal regno, la chiesa passò ai francescani riformati, che intestarono la chiesa alla Trinità Maggiore. Finalmente nel 1821 fu restituita all'ordine formatore.   L'interno si presenta molto fastoso per il rivestimento in marmi policromi delle pareti e per la ricca decorazione degli altari e delle cappelle. L'altare maggiore, opera monumentale ma di scarso valore artistico, contiene intarsi di agata nera, giallo fiorito, porfido, diaspro, ametista, malachite, serpentina e lapislazzuli. Sulla parete d'ingresso vi è l'affresco di F. Solimena con la "Cacciata di Eliodoro" dal tempio (1725)
vedi foto. Sul soffitto della navata centrale affreschi di B. Corenzio e P. De Matteis.   L'abside è dominata da una scenografica composizione in marmo con al centro la statua dell'Immacolata ed ai lati i Santi Pietro e Paolo.  Nella cappella Di San Francesco Geronimo (a sinistra) sono conservati due suggestivi reliquiari in legno intagliato e dorato del XVII secolo. Tra le varie reliquie presenti anche quelle, veneratissime, di S. Ciro che furono poi spostate sotto l'altare della seconda cappella con quelle di S. Giovanni di Edessa che fu compagno di martirio del santo medico.
Il cappellone che segue è intitolato al fondatore della compagnia di Gesù S. Ignazio da Lojola; fu eretto dal principe Gesualdo da Venosa, celebre madrigalista che fece uccidere la propria moglie e l'amante nel palazzo di S. Severo; dopo i restauri per i danni del terremoto del 1688 e del bombardamento del 1943 ha ripreso il suo aspetto sontuoso accentuato anche dalle statue del Fanzago . Molto bella ed imponente è la sacrestia alla quale si accede attraverso un importante portale di Cosimo Fanzago; rivestita da armadi lignei del XVII secolo venne affrescata nella volta barocca da Aniello Falcone.
La cappella della Visitazione (2° a destra), così denominata dalla tela di M. Stanzione sull'altare maggiore, custodisce le spoglie di San Giuseppe Moscati, medico agli ospedali degli Incurabili, docente universitario, il quale si prodigò per tutta la sua vita in favore degli ammalati e dei poveri con grande generosità, canonizzato nel 1987 e molto venerato dai fedeli.

Controfacciata della chiesa

Complesso Monumentale dei Girolomini



Il nome Girolomini o, come veniva anticamente chiamato, Gerolomini, ricorda i padri che fiorirono a Napoli nel XVI secolo meritandosi in regalo dall'arcivescovo Carafa ciò che restava del palazzo Saripando, con l'invito a creare anche a Napoli un oratorio. I padri acquistarono case e casupole, giardini e orti in tutta la zona viciniore, comprese due chiesette antiche, demolendo il tutto e dando inizio, nel 1592, alla loro monumentale chiesa, che dedicarono a S. Maria della Natività e a Tutti i Santi.
Primo architetto ne fu il Dosio, alla sua morte ne continuò l'opera Dionisio di Bartolomeo e nel 1619 la chiesa era finita ma senza cupola, innalzata nel 1650 da Dionisio Lazzari insieme alla facciata che più tardi Ferdinando Fuga si incaricò di rifare, aggiungendovi i caratteristici due campanili. Le statue che la ornano sono del Sammartino.  L'interno in stile barocco, in restauro, ampio e luminoso, è diviso in tre navate da colonne di granito; sull'altare maggiore si nota il dipinto di G. B. Azzolino raffigurante la "Madonna della Vallicella".
Il soffitto è fastoso, d'oro in legno intagliato; vediamo tra le altre opere un grandioso affresco de "La cacciata dei profanatori dal Tempio".
Altre opere  d'arte di grandi maestri (Guido Reni, Solimena, Cavallino, ecc.) nonchè la sontuosa cappella S. Filippo Neri, opera di Dionisio e Jacopo Lazzari.
La cupola presenta un affresco ottocentesco di Camillo Guerra restaurato da Antonio Barletta.
La sacrestia affrescata da Luca Giordano conserva il settecentesco pavimento marmoreo del Guglielmelli. Fa parte del complesso la Biblioteca che custodisce incunaboli e preziosi manoscritti, tra cui il fondo del filosofo napoletano Giuseppe Valletta, curato  da Gian Battista Vico nel 1724, in un ambiente con arredi e decorazioni del Settecento. La Pinacoteca, raccoglie importanti opere tra cui dipinti di Guido Reni, Luca Giordano e Jusepe de Ribera. Ricordiamo, inoltre, la Congrega dell'Assunta, l'Archivio Oratoriano, quello musicale e i due Chiostri: il piccolo del Dosio con al centro il secentesco pozzo in marmo, ed il grande del Lazzari con un ampio aranceto.
Porticato
 
Porticato del Grande Chiostro:
contiene una  quadreria del Settecento Napoletano ed una Biblioteca-Museo tra
le più belle d'Europa preservata, nel secondo conflitto mondiale, dall'opera d'un grande studioso Antonio Bellucci.
Nell' annessa Chiesa riposano le spoglie
di Gian Battista Vico.




San Domenico Maggiore
Piazza San Domenico

Copia del Caravaggio

Fra il 1283 ed il 1324 i Domenicani, i quali qui si erano stabiliti occupando un convento che era stato prima dei Basiliani e poi dei Benedettini, ricostruirono la loro casa madre demolendo le vecchie strutture delle quali conservarono soltanto la precedente chiesa di S. Angelo incorporandola nella nuova costruzione. L'appoggio degli Angioini prima e via via delle varie dinastie regnanti, permise ai Domenicani di realizzare, con un continuo programma di rifacimenti, uno dei complessi monastici più vasti e più ricchi della città, sede della prima università napoletana. Questa stratificazione secolare è evidenziata già nella facciata, nella cui impaginazione si individuano i vari momenti costruttivi della fabbrica. Il bel portale trecentesco, formato da fasce marmoree policrome, è chiuso, infatti, fra due cappelle rinascimentali sporgenti sulla facciata ed è coperto da un pronao costruito nel '700 nel tentativo di riorganizzare spazialmente questa commistione di forme. Nella parete superiore della facciata il Travaglini nell'Ottocento aprì una bifora durante il suo discutibile restauro, interrompendo la muratura di tufo giallo. L'interno - tre navate con transetto ed abside poligonale - recupera una tipologia gotica presente in altre chiese angioine a Napoli. Ma la spazialità originaria, in cui anche le coperture (capriate lignee sul transetto e sulla navata centrale ed archi ad ogiva su quelle laterali) contribuiscono a creare un modello architettonico (notare la sostanziale somiglianza con il Duomo), risulta compromessa non tanto dagli interventi barocchi quanto dal restauro ottocentesco operato da Federico Travaglini (1850-53) il quale qui propose un gusto neogotico molto diffuso in quegli anni in Europa. Alla trasformazione delle coperture seguì un rivestimento delle pareti con stucchi colorati (fasce grigie e rosa) ed una doratura degli archi acuti e dei capitelli dei pilastri, ottenendo un cromatismo violento e lontano da ogni suggestione gotica. Precedentemente (1640-46) Cosimo Fanzago aveva realizzato l'altare (restaurato nel 1695), la balaustra e le cattedre marmoree addossate ai pilastri ai lati dell'altare; tutto lo spazio absidale, dopo la sistemazione dell'organo (1751) e del coro ligneo in radica di noce (1752) presenta, ormai, un'impronta decisamente barocca. Ma, riprendendo la visita dall'ingresso, alla destra di questo ammiriamo la bella cappella Carafa (opera rinascimentale di Romolo Balsimelli) mentre, lungo la navata di destra, la prima cappella conserva una tela di Francesco Solimena (Vergine circondata da santi domenicani, 1730), ma è quella successiva (cappella Brancaccio) che merita particolare attenzione. Completamente affrescata da Pietro Cavallini (1309) la cappella dà l'idea di come si presentava la chiesa nel Trecento. Nelle cappelle successive ammiriamo opere di Pacecco de Rosa, Marco Pino e Teodoro d'Errico (quarta cappella), mentre la cappella del Crocifisso forma un ambiente a sé stante con i dipinti di notevole importanza e monumenti funebri cinquecenteschi. Fra questi va ricordato quello di Caterinella Orsini e Placido di Sangro (opera di Tommaso Malvito) e quello di Ferdinando Carafa attribuito allo stesso autore. Nella cappellina dei Carafa di Andria esiste un bel presepe di Pietro Belverte mentre sull'altare maggiore del cappellone la tavola del Cristo in croce (opera di incerta attribuzione) è legata alla tradizione secondo la quale il Cristo raffigurato avrebbe parlato a S.Tommaso d'Aquino il quale in questo convento dimorò, insegnando in questa università dove compose la terza parte della sua Summa Theologiae. La sagrestia è uno splendido ambiente con il soffitto affrescato dal Solimena. Sopra gli armadi, su di un ballatoio, sono disposti in due ordini 45 feretri contenenti le spoglie di personaggi per lo più legati alla corte aragonese. Dal transetto destro si accede agli ambienti corrispondenti alla primitiva chiesa di S. Angelo a Morfisa della quale però, per i successivi interventi anche in epoca barocca, è difficile stabilire la struttura e la planimetria originarie. Ritornati nel transetto ecco nella cappella più vicina all'altare maggiore due tele di Luca Giordano (S. Tommaso d'Aquino e S. Vincenzo Ferreri). Dell'altare abbiamo già parlato; occorre però ricordare il celebre Candelabro pasquale con le Virtù, opera di Tino di Camaino. La cappella successiva custodiva, fino a qualche anno fa, la celebre Flagellazione del Caravaggio oggi a Capodimonte, mentre è ancora possibile vedere la copia(Vedi foto) che del celebre quadro realizzò Andrea Vaccaro nel XVII secolo. Usciamo nella vicina piazza scendendo, per una scala sotto l'altare maggiore, nella bella cripta ottagonale un tempo tutta affrescata dal Solimena. Sulla strada il paramento di mattoni dell'abside poligonale inquadra un bel portale marmoreo cinquecentesco. Sulla vicina scala, della quale abbiamo già detto, un pregevole portale marmoreo rimanda ad un analogo esempio presente sulla facciata della chiesa di S. Agostino a Montepulciano od anche al coronamento mistilineo con il quale si conclude il monumento del cardinale Brancaccio (opera di Donatello e Michelozzo) nella vicina chiesa di S. Angelo a Nilo. Un balcone marmoreo, con accesso dalla cappella del cardinale Spinelli, partecipa all'arredo di questa bella piazza le cui quinte sono formate, oltre che dall'abside della chiesa, dai Palazzi Petrucci (con scala catalana), Casacalenda (opera di Vanvitelli e Gioffredo), Corigliano e Palazzo Sangro con il bel portale di Bartolomeo Picchiatti (1621). Al centro della piazza si eleva la guglia in marmo eretta dopo la peste del 1656 su progetto di Francesco Antonio Picchiatti e terminata nel 1737 da Domenico Antonio Vaccaro.

San Ferdinando
Piazza Trieste e Trento

Chiesa San Ferdinado: EntrataUna prima chiesa, con il titolo di San Francesco Saverio, fu fondata dai Gesuiti nel 1622, insieme ad un piccolo collegio; nel 1624 per iniziativa di Caterina Zunica si avviarono lavori di ampliamento.
Dopo la fondazione i lavori dovettero essere sospesi fino al 1628, per poi riprendere più tardi fino al definitivo completamento del collegio gesuitico.
Dopo l'espulsione dei gesuiti dal regno, nel 1767, passò ai cavalieri costantiniani che in omaggio al re Ferdinando IV la intitolarono al suo santo omonimo.
La storiografia tradizionale attribuiva la realizzazione del progetto a Cosimo Fanzago, autore, invece, dell'ammodernamento della chiesa (interno e facciata).
La chiesa venne, in realtà, realizzata su progetto di Giovan Giacomo Di Conforto come dimostrano i disegni conservati al Museo di San Martino. Da questi si rileva una piena adesione al gusto di transizione dal manierismo al barocco.
Il lungo intervallo compreso fra il 1628 ed il rifacimento dell'abside che, in mancanza di dati di archivio, si può datare sulla base della tela dell'altare maggiore, opera di Luca Giordano che venne a sostituire quella di Salvator Rosa, non permette di giudicare quanto sia stato effettivamente realizzato del progetto del Di Conforto quanto, invece, si debba all'intervento di Cosimo Fanzago. Questi si appresta, con l'opera di ammodernamento, a fondere architettura e scultura secondo un orientamento affine al progetto approntato per il portico di facciata del Monte della Misericordia.
L'analogia di impronta spinge a datare il suo intervento nella chiesa di San Ferdinando intorno alla metà del Seicento. Celano (1692), e con lui molti altri, confonde l'intervento fanzaghiano, sicuramente posteriore, con il progetto iniziale e gli attribuisce l'intera opera. L'interno contiene molte valide testimonianze d'arte come gli affreschi del De Matteis che rappresentano i santi dell'ordine. Sull'altare maggiore il San Ferdinando è del Maldarelli, mentre nel transetto (braccio laterale della croce) sinistro vi sono una Concezione di Cesare Fracanzano e le statue di David e Mosè di Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro. Per l'altare maggiore, i gesuiti, grazie ad un generoso lascito di 30.000 ducati ricevuto dalla viceregina Caterina della Cerda y Sandoval, vedova del vicerè don Pedro de Castro conte di Lemos, avevano commissionato  un San Francesco Saverio a Salvator Rosa, ma la tela non ebbe l'approvazione dei gesuiti che ne commissionarono un secondo a Cesare Fracanzano, ma anche questa tela non piacque ai difficili committenti che si rivolsero a Luca Giordano il quale, per non incorrere nello stesso incidente, nicchiò a lungo finchè dopo un intervento deciso del vicerè, il marchese del Carpio, con quella proverbiale sveltezza che gli valse l'appellativo  di "Luca fa' presto", eseguì in sole quaranta ore l'opera che piacque talmente al vicerè da fruttare all'artista uno studio nel palazzo vicereale affinchè il marchese potesse, nei momenti di tranquillità concessi dalle cure del governo, godersi lo spettacolo di Luca al lavoro.
Chiesa di San Ferdinando: internoAnche lo Spagnoletto lavorò per la chiesa di San Ferdinando dipingendo un San Bartolomeo che riscosse l'ammirato entusiasmo non solo del popolo, ma del vicerè del tempo, don Pedro Giron conte d'Ossuna, che gli commissionò una seconda tela da donare alla chiesa rappresentante S. Antonio di Padova.
Anche il Galante cita un S. Stanislao attribuito al Ribera, ma di tutte queste testimonianze dello Spagnoletto non si hanno più notizie nella chiesa.
Con l'avvento dei cavalieri costantiniani il S. Francesco Saverio del Giordano fu trasferito al Museo e sostituito con un S. Ferdinando e S. Giacomo del Sarnelli, allievo del De Matteis, che a sua volta verrà poi sostituito da un S. Ferdinando del Maldarelli.
La chiesa è sede dell'arciconfraternita di S. Ferdinando di Palazzo di Nostra Signora dei Sette Dolori, che risale al 1522, fondata nella distrutta chiesa di Santo Spirito di Palazzo.
Furono confratelli di questa nobilissima arciconfraternita i re di Napoli a cominciare da Carlo di Borbone, le regine, alcuni pontefici, e dopo l'unità d'Italia, i re sabaudi fino ad Umberto II. Anche nel laico decennio francese ebbe la "protezione" di Giuseppe Bonaparte. Da ricordare che un preciso decreto reale vietava la sepoltura dei defunti nella chiesa di S. Ferdinando, ma una sola eccezione fu concessa alla duchessa Lucia Migliaccio Partanna di Floridia, moglie morganatica di Ferdinando I, che vi è sepolta in un rigoroso monumento funebre neoclassico di Tito Angelini nel transetto sinistro. Il regale marito le donò la celebre villa al Vomero che dal suo nome si chiamò Floridiana.


San Francesco di Paola
Piazza Plebiscito



Gelida interpretazione del Pantheon di Roma, fu fatta erigere da Ferdinando I di Borbone per celebrare il recupero del regno nel 1816.
La facciata è preceduta da un pronao su sei colonne e due pilastri ionici.
Di prassi il "timpano" classicheggiante che ospita la statua della "Religione" tra quelle di "S. Francesco di Paola" a sinistra e quella di "S. Ferdinando" sulla destra in omaggio al re. La grande rotonda centrale di 34 m. di diametro è coperta da un'immensa cupola alta 53 m., sorretta da 34 colonne corinzie e 34 pilastri, tutto in marmo pregiato di Mondragone. l'altare maggiore è preziosamente intarsiato con porfido, agate, diaspri siciliani e lapislazzuli; è l'unica opera d'arte di sicuro valore essendo opera del 1641 di Anselmo Cangiano e "prelevato" per disposizione sovrana, dalla bella chiesa dei SS. Apostoli.

Cartolina degli inizi del XX secolo
Le statue e le pitture sono opere d'epoca, raggelate dallo stile anodino del neoclassico ottocentesco. Citeremo tra gli scultori Gennaro ed Antonio Calì, che collaboravano con il Canova, Tito Angelini, il Finelli, Tommaso Arnaud e il Solari autore anche delle statue sul porticato.
Altro pezzo di pregio, nella cappella a sinistra dell'atrio, è un "S. Onofrio" in preghiera di Luca Giordano.
Al centro della piazza campeggiano le due statue equestri di Carlo III di Borbone e del figlio Ferdinando IV; la statua di Ferdinando ed il bel cavallo sono del Canova, come lo è anche l'altro cavallo che avrebbe dovuto far parte di un monumento equestre dedicato a Napoleone I secondo la committenza, al Canova, di re Giuseppe Bonaparte; mentre la statua di Carlo è del Calì.
Cartolina degli inizi del XX secolo, in alto castel S. Elmo

 San Giovanni a Carbonara
via S. Giovanni a Carbonara

La trecentesca chiesa di San Giovanni a Carbonara è una delle chiese Chiesa di: San Giovanni a Carbonara napoletane più importanti, sia per il profilo artistico che per quello religioso.
Essa sovrasta la chiesa di Santa Sofia, di epoca barocca, che contiene un altare dalle belle forme ornate dal Sanfelice del 1746 ed alcuni interessanti bassorilievi cinquecenteschi raffiguranti scene tratte dal Nuovo e Vecchio Testamento.
Salendo la bella scala troviamo il portale quattrocentesco, ricco di intagli e statue, della cappella di Santa Monica che contiene il sepolcro di Ruggero Sanseverino opera di Andrea da Firenze dei primi decenni del Quattrocento.
A sinistra si apre il recinto quattrocentesco della nostra chiesa, che è un interessantissimo sepolcreto di personaggi di grosso spicco per la storia del rinascimento napoletano: re, dignitari, patrizi, giureconsulti, prelati, militari che orbitarono intorno a Ladislao e Giovanna II di Durazzo d'Angiò.
L'origine della chiesa è trecentesca ed è dovuta alla munificenza di un nobile napoletano, Gualtiero Galeota, che donò un suo orto ed alcune case all'abate del piccolo romitorio degli agostiniani esistente in quella zona, frà Giovanni d'Alessandro, perché vi costruisse un convento dedicato a San Giovanni, protettore della famiglia Galeota.Chiesa di Santa Sofia: Interno
A questa donazione del 1339 se ne aggiunse una seconda di altri due giardini nel 1343. Frà Dionigi dette inizio alla costruzione del nuovo convento e della chiesa prima di essere nominato dal papa Benedetto XII vescovo di Monopoli, in Puglia.
Il progetto iniziale venne attribuito ad un Masuccio II e l'esecuzione ad Angelo Criscuolo.
Il complesso si avvarrà, poi, di ampliamenti ed abbellimenti, voluti dal re Ladislao (1386 - 1414), sotto la guida di Giosuè Rocco.
Oggi si accede alla chiesa dalla bella scalinata barocca del Sanfelice e passando davanti all'ingresso della "cappella di Santa Monica".
Tomba di re Ladislao All'interno numerose testimonianze del gotico durazzesco napoletano, nonché rinascimentali e molti sepolcri di uomini importanti.
Subito dietro l'altare maggiore è il possente monumento funebre di re Ladislao dal quale si accede alla cappella Caracciolo del Sole, restaurata nel 1699 e nel 1753.
Ancora una cappella Caracciolo ma del ramo di Vico, troviamo a sinistra del presbiterio, bella opera rinascimentale attribuita ai Malvito e voluta nel 1517 da Galeazzo Caracciolo. Infatti, tutta la cappella è un piccolo museo di sculture dal rinascimento al rococò con opere di Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Santacroce, Finelli, Sammartino.




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