domenica 6 novembre 2011

La fine dei Vinti, il romanzo storico sull’Unità d’Italia

La storia della reazione meridionale all’invasione piemontese è storia tutta da raccontare, soffocata com’è ancora da quella retorica patriottarda e falsamente celebrativa di un Risorgimento nobilissimo nell’intendimento dei molti romantici e liberali che vi credettero e mercenario, quant’altri, mai nella stragrande maggioranza degli uomini che di quell’ ideale se ne appropriarono per asseverarlo ai loro inenarrabili interessi di bottega, di lobby o di regno.

E’ storia ancora da leggere attentamente, da decifrare con cautela, da divulgare con la pacatezza di chi porta alla luce le ragioni dei vinti; da contrapporre con la serena consapevolezza di chi sa che tutte le ragioni (e che le ragioni di tutti) hanno eguale dignità nel fluire del tempo; è una storia che consente a sensibilità diverse di cogliere sfumature diverse. 
Ed è grazie all’emergere di tali sensibilità che la storia vera delle terre e degli uomini del Sud si fa, di volta in volta, saggio, ricostruzione storica, cronaca giornalistica, lamento, denuncia, impegno, racconto, romanzo, persino poesia. 
Questa storia taciuta, negata, offesa e violentata urge alle sempre più numerose coscienze di chi trasforma il recupero della memoria in orgoglio; e questo in impegno quotidiano e di una vita. Come Fiore Marro.
Prendendo probabilmente a spunto la riproposizione di un’opera edita negli anni della difficile Unità,Antonio Vismara da Vergiate, I briganti La Gala : storie di omicidi, di sequestri e di grassazioni all'indomani dell'Unita d'Italia, Lecce : Capone, 2008, Fiore Marro dimostra come sia possibile cogliere anche attraverso la forma del romanzo il senso profondo degli avvenimenti, le loro ragioni reali, la loro esatta collocazione nello scenario politico. In più, questo suo cogliere non è imposto al lettore ma solamente suggerito. Meglio ancora, Fiore suggerisce al lettore l’esistenza di una chiave di lettura e gli affida il compito più gravoso: scoprirla da solo.
Il romanzo ruota intorno alla vicenda umana dei fratelli La Gala, Cipriano e Giona La Gala, nati a Nola in provincia di Napoli, il primo nel 1834, il secondo due anni dopo. Nel 1855 i due fratelli vengono condannati a 20 anni di carcere per una rapina . Nel 1860 i due fratelli La Gala fuggono dal carcere di Castellamare e si danno alla macchia; ma Giona subito dopo viene arrestato nuovamente e rinchiuso nel carcere di Caserta; vi evade dopo un anno. Cipriano forma una sua banda, che raggiunge i trecento uomini e la cui zona operativa si colloca prevalentemente sui monti del Taburno, in un turbinoso susseguirsi di scontri con la truppa unitaria, di sequestri, di saccheggi, delle violenze di una guerra nella quale sono saltate tutte le regole. Nel gennaio 1862 i due La Gala raggiungono Roma, dove incontrano Re Francesco II Borbone, che vuole mandarli a Marsiglia ed a Barcellona per reclutare legittimisti europei che possano sostenere la sua causa. Si imbarcano sulla nave francese Aunis, convinti dell’immunità extraterritoriale che garantisce i legni di una nazione straniera: così non è perché i piemontesi, avvertiti da una delazione e violando le leggi del mare e quelle delle convenzioni internazionali, salgono sulla nave battente bandiera francese – ferma nel porto di Genova - e li arrestano. Scoppia un furibondo incidente diplomatico e ne nasce una diatriba che si muove lungo il doppio binario delle regole del diritto internazionale e della “ragion di stato”. Alla fine, faticosamente, si trova un accomodamento: i La Gala vengono restituiti ai francesi che possono sostenere così il riconoscimento delle regole del diritto internazionale da parte dell’Italia. Ma il sottile e sotterraneo gioco di feluche – che ha come obiettivo principe la salvaguardia della “dignità” di entrambi gli stati di fronte all’opinione pubblica internazionale ha segnato il destino dei due fratelli: attenuatisi i clamori della vicenda, vengono consegnati all’Italia perché li possa processare, quasi certamente con l’assicurazione della salvezza della vita dei due prigionieri. Il processo, celebratosi a Napoli con un notevole impatto mediatico in un’aula sempre stracolma di spettatori (vi accorrono anche corrispondenti dei maggiori giornali italiani e stranieri) si conclude con la prevedibile condanna a morte dei due imputati. Ma si tratta solo dell’ennesimo gioco delle parti, del contentino da dare in pasto al perbenismo dell’opinione pubblica unitaria. In realtà, l’accordo sottostante tra Francia e Italia, porta alla concessione della grazia da parte di quest’ultima. Il che, puntualmente e spentisi i riflettori sulla vicenda, avviene: ai La Gala si fa salva la vita e la pena viene tramutata in ergastolo: Cipriano viene rinchiuso nel carcere del cantiere della Foce a Genova e Giona a Portoferraio. Ed è pena ancor più atroce di quella capitale perché le condizioni di detenzione – a leggere svariati documenti - appaiono orribili. 
Così Giona e Cipriano La Gala escono dalla storia, da quella storia che li ha visti ad un tempo protagonisti e vittime.
Con una riuscita invenzione letteraria Fiore trasforma oggi l’ipotetico inviato di un giornale del 1864, intento a raccontare la cronaca di un processo che, come detto ha attirato, attirò le attenzioni dell’Europa - in uno strumento di maggiore conoscenza per noi che quei fatti rileggiamo 150 anni dopo. 
L’autore ha scelto, per dare corpo al messaggio che vuole affidare al lettore, un personaggio cosiddetto “minore”, uno di quelli che appaiono appena sulla scena. Ma non per questo meno importanti, anzi. Perché il loro apparire - anche solo per un istante, anche solo con una battuta - disvela profonde e non emerse verità; pone domande che attendono una risposta: chi è Giovanni D’Avanzo? come mai un uomo, diciamo così “d’ordine” assume un ruolo di rilievo, in una banda di presunti “tagliagola” ? chi sono questi briganti? sono solo briganti? in nome e per conto di chi occupano posizioni quasi inaccessibili come i monti del Taburno?. 
E le risposte vengono con altrettante domande: un uomo d’ordine di Re Francesco con i briganti? Vuoi vedere che sono soldati che combattono in altro modo – come i tempi impongono – sotto la bandiera di sempre? Vuoi vedere che la scelta di stazionare alla macchia su quelle montagne risponde a precise scelte strategiche e militari? Vuoi vedere che se una forza così consistente non può sopravvivere solamente con le, pur necessarie, grassazioni, allora vuol dire che deve ricevere ben altri finanziamenti da qualche parte? E che se ciò è vero, allora non si può più parlare di banditismo comune ma se ne deve riconoscere il carattere di forza armata combattente e resistente?
Insomma Fiore Marro ci sollecita ad assistere con Paolino Amato, l’io narrante del suo lavoro, ad un processo che se all’epoca era direttamente rivolto ai capi della banda La Gala, oggi – alla lunga - si trasforma in un processo ai giudici di allora. 
Con il romanzo tornano alla memoria gli intrighi internazionali di cui abbiamo accennato. E allora, stavolta da soli, ci si chiede: qual è il ruolo vero della Francia nelle vicende della banda La Gala, fin dai tempi della formazione della banda?
E torna prepotente l’interrogativo iniziale: che ci fa un uomo che ha giurato fedeltà a Re Francesco nel bel mezzo della banda? Vuoi vedere che è il controllore, per conto del suo re, proprio di chi combatte per difenderlo? Se pensiamo al ruolo ed alle strategie del potentissimo partito “murattiano” nelle tormentate vicende dell’unificazione, la domanda non appare poi tanto immotivata. Ma questa è tutta un’altra storia, anch’essa da scrivere ancora.
Fiore ha un grosso merito: non nasconde un particolare del processo La Gala che fa rabbrividire perfino i pudici difensori del brigantaggio legittimista d’antan: un presunto episodio di cannibalismo, ad opera dei fratelli La Gala. Ne fa anzi un momento lungo del suo narrare. E non perché indulga, come il pubblico accorso al processo, alla morbosità di un orrore infinito. Tutt’altro! 
La sua narrazione è lo scavo nel fatto (se “fatto” poi veramente è, e non leggenda; se è cruda realtà o non piuttosto finzione inquisitoria tesa a dar colore all’esecrazione della folla benpensante che deve accompagnare il verdetto verso al sua esecuzione); è ricerca delle cause; non condanna, nemmeno giustificazione. Anche se un passaggio del resoconto del processo la dice lunga sul suo pensiero: “… il Presidente indignato ha esclamato: Diciamo in breve in faccia all’Europa: Ecco chi sono i difensori del trono e dell' altare!”Ecco per Fiore Marro il senso profondo del processo, la necessità del raccapriccio: giustificare se stessi in “faccia all’Europa”; cannibali stiamo giudicando non partigiani, selvaggi che si portano a spasso i genitali del nemico ucciso, “affricani” che dobbiamo addomesticare per elevare al rango di uomini. Altro che combattenti nobilitati da combattere per una causa. E il giudice che dà la stura alla sua indignazione è solo il megafono dei suoi padroni: “Tribunale dell’Europa e dell’umanità, la nostra guerra che ai tuoi occhi disincantati appare di conquista è invece guerra di liberazione, di affrancamento dal servaggio, missione di elevazione di una progenie inferiore che occupa e controlla abusivamente un territori al quale devono essere restituite dignità e libertà”.
Eccolo qui il merito principale del racconto di Fiore Marro: attraverso la enunciazione della cronaca di un episodio, tutto sommato ormai dimenticato, riapre il dibattito sugli avvenimenti, sulle ragioni, sulle reali motivazioni di un periodo che, a seconda di come lo si voglia leggere, è tragico o esaltante. 
E il suo occhio attento si serve di un personaggio “minore”, totalmente ignorato finora. Ma che racchiude in sé umanità, fedeltà e coerenza. 
Giovanni Davanzo, grazie a Fiore Marro, non è più uno sconosciuto che ha attraverso la nostra storia: è il dagherrotipo di un certo modo di essere meridionali, della coerenza e della tragicità di quegli “affricani” che hanno custodito per secoli - pur con limiti - la culla della civiltà italiana e l’hanno – anche se a malincuore – consegnata al sogno, ancora non realizzato, di una nazione proiettata verso il futuro.
L’umanità di D’avanzo e dei fratelli La Gala, tragica nella sostanza ed anche – se vogliamo – crudele nelle sue esternazioni, non meritava certamente l’oblio.
Grazie a Fiore Marro perciò, per aver evitato loro quest’ennesima onta e per averci consentito di soffermarci un istante, con la leggerezza del racconto, su un periodo che ha segnato i nostri destini.


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